Allarme PFAS e TFA
Cosa sono gli inquinanti emergenti dell’acqua?
Come sono classificati e regolamentati?
Cosa sono e dove si trovano?
Cosa fare per abbattere TFA e PFAS dall’acqua?
Come abbatterli nell’acqua di casa ed in ciò che beviamo?
Non tutti sanno che il TFA, un composto PFAS a catena corta, si sta diffondendo rapidamente nelle fonti e risorse idriche, insieme ad altri inquinanti emergenti che fino a pochi anni fa erano quasi sconosciuti.
Oggi la scienza e le autorità stanno portando alla luce la presenza di queste sostanze nell’acqua che beviamo ogni giorno.
Cosa sono gli inquinanti emergenti dell’acqua?
Negli ultimi anni il tema della qualità dell’acqua ha acquisito una nuova centralità, non solo per la crescente attenzione dei consumatori, ma soprattutto per l’insorgere dei cosiddetti “inquinanti emergenti”: sostanze che fino a pochi anni fa non venivano considerate nelle analisi di routine, ma che oggi sono oggetto di studi e controlli sempre più approfonditi.
Tra questi, una particolare attenzione è riservata ai PFAS (sostanze perfluoroalchiliche): noti anche come “inquinanti eterni” proprio per la loro capacità di persistere nell’ambiente per decenni, sono stati rinvenuti nell’acqua potabile e in numerosi alimenti comuni.
Non tutti i composti riscontrabili nelle acque destinate al consumo umano, infatti, devono necessariamente destare preoccupazione: alcune sostanze, tra cui sali minerali o piccole quantità di nitrati, sono normalmente presenti e non pongono rischi se stabiliti entro i limiti di legge. Ma la presenza di PFAS solleva perplessità nella comunità scientifica e nelle istituzioni europee, che hanno iniziato a riconoscerli come una priorità da gestire.
Come sono classificati e regolamentati?
I PFAS (sostanze per- e poli- fluoroalchiliche) costituiscono una famiglia di composti chimici utilizzati per decenni in numerosi settori industriali: dai rivestimenti antiaderenti ai tessuti tecnici, fino alla produzione di schiume antincendio e prodotti fitosanitari.
Dal punto di vista chimico i PFAS si dividono principalmente in due categorie:
- PFAS a catena lunga
- PFAS a catena corta,
in base al numero di atomi di carbonio presenti.
I PFAS a catena lunga, come il PFOA e il PFOS, sono quelli più studiati e spesso associati ad una maggiore capacità di bioaccumulo negli organismi viventi.
I PFAS a catena corta, come il PFBS e il TFA (acido trifluoroacetico), sono stati introdotti più recentemente, ma la loro elevata solubilità nell’acqua facilita la diffusione nell’ambiente, in particolare nelle falde acquifere e nelle risorse idriche.
A livello europeo la regolamentazione dei PFAS ha subito una forte accelerazione negli ultimi anni. Attraverso la Direttiva 2020/2184 l’UE ha introdotto nuovi parametri per le acque destinate al consumo umano: tra questi, la misurazione del PFAS totale (con un limite di 500 nanogrammi per litro a partire dal 2026) rappresenta una novità significativa.
Alcuni tipi di PFAS sono inoltre soggetti a restrizioni, perché ritenuti particolarmente critici per la loro persistenza e potenziale tossicità. Le autorità europee stanno lavorando per inserirli nell’elenco delle Sostanze Estremamente Preoccupanti (SVHC) secondo il regolamento REACH, e per aggiornarne la classificazione in base alle nuove evidenze scientifiche, con particolare attenzione agli effetti sulla salute umana e sull’ambiente.
TFA (acido trifluoroacetico): cos’è e dove si trova?
Tra i PFAS, l’acido trifluoroacetico (TFA) rappresenta uno dei composti più discussi a livello internazionale. Il TFA è una molecola a catena ultra corta, estremamente solubile in acqua e resistente ai processi di degradazione: proprio per queste caratteristiche è diventato, secondo diverse ricerche, il PFAS più presente nelle acque a livello globale.
L’acido trifluoroacetico deriva principalmente dalla degradazione di altri PFAS, in particolare pesticidi fluorurati e gas refrigeranti, ma viene anche impiegato in alcuni processi industriali (tra cui la sintesi di farmaci). A differenza dei PFAS a catena lunga il TFA non tende ad accumularsi nei tessuti, ma la sua ubiquità e persistenza sono motivo di allerta.
Una recente indagine promossa da Greenpeace e PAN Europe ha evidenziato come il TFA sia ormai onnipresente nell’ambiente, costituendo oltre il 98% dei PFAS totali rilevati in alcuni campioni d’acqua (superficiale e di falda) prelevati da 10 paesi europei, con concentrazioni che raggiungono anche i 3.300 nanogrammi per litro. Non solo: il TFA è stato rilevato anche nei mari, nei ghiacci, nell’aria, nell’acqua potabile, in alcuni alimenti (succhi, puree, birra, tè, frutta e verdura) e persino nel sangue umano.
Anche in Italia il TFA ha iniziato a richiamare l’attenzione. Uno studio indipendente condotto da Altroconsumo, su 21 marchi di acqua minerale naturale, ha rilevato la presenza di TFA in diverse bottiglie: 5 noti brand sono stati penalizzati per livelli eccessivi, mentre solo 11 acque imbottigliate hanno ottenuto un giudizio positivo. Questi risultati sottolineano come il problema non riguarda solo l’acqua potabile del rubinetto, ma anche le acque minerali che molti scelgono per fiducia e praticità.
L’attuale mancanza di un limite specifico per il TFA, sia nell’acqua potabile sia in quella minerale, alimenta i timori rispetto ai suoi possibili effetti a lungo termine: la sua ampia diffusione e la crescente attenzione da parte di cittadini e istituzioni confermano l’urgenza di adottare strategie efficaci per limitarne l’assunzione e ridurne l’impatto ambientale.
Ci sono PFAS nell’acqua potabile in tutta Italia
Un'indagine di Greenpeace ha trovato tracce nell'acqua potabile tutta Italia.
I PFAS sono subdoli. La loro azione dannosa per la salute si manifesta con l’accumulo nei nostri organismi, dove entrano silenziosamente per non uscire mai più. Fanno irruzione nella dimensione più intima delle nostre vite, quella domestica. Scorrono dai rubinetti delle nostre case, quelle di tutta Italia, secondo la mappatura realizzata da Greenpeace Italia.
L’indagine di Greenpeace “Acque senza Veleni” ha raccolto campioni di acqua potabile nelle acque di 235 città distribuite in tutte le regioni. Nel 79% dei casi ha trovato presenza di diversi PFAS. Le molecole più diffuse sono il PFOA, già dichiarato cancerogeno e presente in quasi la metà dei campioni; il composto a catena ultracorta TFA, il più diffuso al mondo tra le molecole PFAS, per il quale però in Italia non esistono dati pubblici di misurazione; il PFOS, bandito dalla Convenzione di Stoccolma e dichiarato possibile cancerogeno dall’Agenzia delle Nazioni Unite per la ricerca sul cancro. In Italia ospitiamo due delle più gravi contaminazioni di PFAS a livello europeo in Veneto e in Piemonte, dove è ancora attiva la produzione.
Le concentrazioni di PFAS nell’acqua potabile rilevate da Greenpeace
L’analisi di Greenpeace ha trovato PFAS in almeno tre campioni di acqua potabile per Regione, a eccezione della Valle d’Aosta, dove ha analizzati sono due. In Liguria, Trentino Alto Adige e Veneto i PFAS sono presenti in tutti i campioni esaminati, in altre regioni si sfiora la totalità (in Veneto sono 19 su 20, l’Emilia-Romagna 18 su 19, in Calabria 12 su 13).
Chiaramente, i possibili rischi per la salute dipendono non solo dalla diffusione dei PFAS, ma anche dalla loro concentrazione. All’inizio del 2026 dovrà entrare in vigore la direttiva europea 2020/2184 che stabilisce in tutt’Europa il valore massimo di 100 nanogrammi per litro per la presenza complessiva di 24 PFAS nell’acqua potabile. Il campione prelevato da Greenpeace ad Arezzo supera questa soglia, con 104,3 nanogrammi per litro. Tutti gli altri sono al di sotto, ma merita attenzione Milano con 90,1 ng/l in via Padova e 58,6 in via delle Forze Armate. A Perugia si raggiungono i 57 ng/l.
Oltretutto, la stessa Agenzia europea per l’ambiente ritiene che il limite imposto dalla direttiva europea sia inadeguato a proteggere la salute umana. Paesi come Danimarca, Paesi Bassi, Germania, Spagna, Svezia e la regione delle Fiandre hanno già introdotto soglie più basse nelle legislazioni nazionali. Stessa cosa negli Stati Uniti. Il 41% dei campioni raccolti da Greenpeace sfora le soglie previste dalle leggi danesi. Il 22% supera quelle in vigore negli Stati Uniti.